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Lucia aveva capito che era ormai in grado di controllare tutti e quattro gli elementi quando, concentrandosi, era riuscita a far materializzare una sfera semifluida che fluttuava tra le sue mani unite a coppa, distaccandosi dai relativi palmi di pochissimo spazio. La sfera altro non era che il suo spirito, un miscuglio di colori che, roteando, in certi momenti si mescolavano tra loro a dare infinite tonalità, in altri si delineavano come se ogni elemento volesse riprendere la sua natura e staccarsi dagli altri. Riconosceva l’aria dal colore giallo, la terra dal colore verde, l’acqua dal colore azzurro e il fuoco dal colore rosso. Poteva ordinare a ognuno di quegli elementi di fare ciò che la sua mente desiderava, nel bene o nel male. Se, ad esempio, voleva utilizzare il fuoco, la sua mente selezionava quell’elemento e dalla sfera poteva partire una palla di fuoco, più o meno grande a seconda delle esigenze.

Martedì 30 Maggio 2017 si presentava, fin dalle prime ore del mattino, una giornata serena, tersa, di tarda primavera. Il cielo era azzurro e, nonostante il sole fosse ancora basso, Lucia fu abbagliata dalla luce non appena chiuso dietro di sé il portone di casa. Aveva trovato un’ottima sistemazione, affittando un appartamento ristrutturato in Via Pergolesi, nel centro storico, a poche centinaia di metri dal suo posto di lavoro. Ma quello che era più interessante per lei era il fatto di trovarsi proprio nel palazzo che aveva ospitato, a piano terra, nel XVI secolo, una delle prime stamperie jesine, quella del Manuzi. L’enorme salone adibito a tipografia era stato nel tempo utilizzato per altri scopi, finanche come palestra e come sala riunioni di qualche partito politico. Ma questo non toglieva comunque fascino a quel luogo. Uscita dal portone e attraversato un piccolo cortile, Lucia era solita attardarsi a rimirare l’arco da cui si usciva sull’antica strada lastricata, Via Pergolesi

Quel pomeriggio d’agosto, in una Piazza del Palio quasi deserta, un falconiere stava addestrando il suo falco pellegrino. L’uomo era quasi immobile al centro della Piazza, il rapace incappucciato posato sul suo braccio guantato. Ai suoi piedi, un coniglio all’interno di una gabbia, e tre piccoli cani dal mantello tigrato, snelli e veloci, dal corpo affusolato, adatti a quel tipo di caccia. Con lenti e studiati movimenti, l’uomo liberava l’uccello dal cappuccio e, sollevando un poco il braccio, lo faceva librare in volo. Per come lo guardava, sembrava voler affidare al falco anche i suoi pensieri più reconditi, cosicché potessero raggiungere altezze ben più elevate di quelle concesse a un misero uomo, per quanto nobile che fosse. Il falco volteggiò nell’aria, facendo sciamare una certa quantità di rondini, rondoni e merli, che non si sentivano affatto rassicurati dalla presenza del predatore. Gli uccelli spaventati sciamarono verso le campagne, al di fuori delle mura; sarebbero ritornati ai loro nidi solo quando non avessero ravvisato più alcun pericolo. Per due, tre volte, il rapace raggiunse un’altezza degna della sua regalità, scrutò verso il basso, riconobbe il suo padrone e ritornò in picchiata per aggrapparsi di nuovo con gli artigli al suo guantone.

La prima cosa che vide riaprendo gli occhi fu di nuovo il viso di Antonella, le sue labbra, i suoi occhi scuri. Era sopra di lei, e la stava chiamando con delicatezza, dandole leggeri schiaffetti sulle guance: «Lucia, Lucia…»

Pensò che stesse ancora dormendo, ancora sognando il viso della giovane suora e, ancora una volta cercò di ricacciare sentimenti contrastanti in un angolo remoto della sua mente. Girò lo sguardo verso il campanile di San Floriano, già illuminato dal sole del mattino, e notò uno strano fenomeno. Sul lato orientale della torre campanaria si stagliava nitida l’ombra del campanile della cattedrale, situato quest’ultimo sul lato opposto della piazza. L’apice dell’ombra sembrava indicare, come una freccia, una delle aperture più alte del campanile di San Floriano, una grande finestra ad arco attraverso la quale si poteva vedere il supporto della campana, che di certo erano secoli che non era più lì, da quando la chiesa era stata sconsacrata.

Rendendosi finalmente conto di essere ritornata alla realtà, Lucia accettò finalmente l’aiuto dell’amica che le allungava la mano, la afferrò e si rimise in piedi. La testa le girava un po’, ma tutto sommato si sentiva discretamente.

I tre soldati si avvicinarono alla città dallo stradone, che conduceva dritto in prossimità di Porta Valle, conducendo con sé i loro prigionieri. Le tre streghe erano state incatenate una dietro l’altra e assicurate al cavallo del luogotenente Capoferri, che ogni tanto spronava l’animale, costringendole a incredibili acrobazie per evitare di rotolare a terra ed essere trascinate per tratti più o meno lunghi, prima di riuscire a rimettersi in piedi. Tutte e tre erano seminude, peste e ferite. Chi incontrava il truce corteo, infieriva sulle giovani, a volte sputava sussurrando tra sé, o più frequentemente gridando: “Streghe! Serve del demonio! Avete finito di disseminare cattiva sorte. Farete la fine che meritate! Al rogo! Al rogo!” Le donne facevano gli scongiuri al loro passaggio, altri tiravano sassi e pietre. L’ebreo, visibilmente ustionato, la pelle annerita dal fumo e gli abiti bruciacchiati in più punti, le mani legate dietro la schiena, era in sella al cavallo di Eliano, che tirava quest’ultimo per le briglie scuotendo la testa.

Neanche meriterebbe tutto questo riguardo, pensava tra sé e sé. Ma non posso contraddire gli ordini del Capitano.

 

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